LE TOMBE DIMENTICATE DEI GRANDI DELLA DANZA 6: SOFIA FUOCO, la Figlia dell’Aria
Il suo nome di battesimo non si addiceva certo a una diva: Maria Brambilla, in quel di Milano, più anonimo di così! A cambiarglielo però pensarono già alla scuola di ballo del Teatro alla Scala, perché evidentemente di bambine Maria Brambilla ne avevano troppe, e così la identificavano col cognome della madre.
Nata a Milano il 16 gennaio 1830 (c’è chi dice nel 1829), figlia della stiratrice Maria Fuoco e del pittore Angelo Brambilla da cui erediterà la sensibilità verso il valore espressivo di gesti e figure, comincia a studiare col grande Carlo Blasis a sette anni e ha un tale talento che debutta in una piccola parte solistica già nel 1839! Nel libretto de “La conquista di Granada” (conservato insieme ad altri nell’archivio parrocchiale di Carate) è elencata tra gli interpreti come “Fuoco M. Angela”.
Esordisce come prima ballerina nel 1843 e prende il nome d’arte di Sofia Fuoco, poi entra a far parte delle “Pleiadi”, gruppo di allievi scelti da Blasis e interpreta alla Scala il famoso “Pas de Quatre”. Nel 1846 il debutto a Parigi e addirittura Téophile Gauthier in un articolo su “La Presse” la definisce “rarissima nella danza” e superiore perfino alla Taglioni e alle altre dive del momento. Era infatti in grado di eseguire un’intera variazione sulle punte senza mai posare il tallone a terra.
A differenza di altri personaggi di spicco che corrono la cavallina e poi “quant el muund j’a voeu pü, se revolgen al bon Gesü” (quando il mondo non li vuol più si rivolgono al buon Gesù), fu sempre molto pia e caritatevole, tanto che mentre mieteva successi a Madrid (dopo essere stata a Londra) destinò un suo favoloso ingaggio, aggiungendovi altro di suo per far cifra tonda, alla locale Casa dei Trovatelli.
Seguono tournées trionfali in tutta la Francia, poi di nuovo la Spagna, dal 1852 in tutta Italia, acclamata fino al fanatismo. Le fu dedicato un sonetto i cui versi iniziavano tutti con la lettera F. Tra i suoi cavalli di battaglia “La Esmeralda”, “La Silfide”, “Giselle”, “Zulejka”, e soprattutto “Catarina, o la figlia del bandito” di Jules Perrot. I critici hanno scritto che “le sue mani avevano il dono della parola” per la potenza espressiva, che i suoi piedi “rendevano l’immagine del volo degli angeli” e che il suo stile era “corretto, preciso, vivace eppure potente, elegante, armonioso e librato”, tanto che fu chiamata “la figlia dell’aria”.
Si ritirò dalle scene non ancora trentenne dedicandosi a opere di bene dalla sua villa di Carate Lario, tuttora esistente lungo la via Regina Vecchia e contrassegnata da una lapide “Villa Fuoco 1845”, in realtà il parroco di Carate don Buzzetti ben noto per le sue ricerche storiche scrive che Sofia “a 25 anni si fece caratese” (pare che la villa da lei acquistata fosse stata costruita da poco da una signora Peverelli).
Nell’archivio parrocchiale restano vari riscontri della sua attività benefica: ad esempio già molto anziana e in ristrettezze economiche dopo che un avvocato a cui aveva affidato la gestione del patrimonio le aveva causato grosse perdite con investimenti azzardati, ancora dona alla parrocchia delle belle “tappezzerie”, cioè stoffe pesanti e di pregio, che vengono in parte vendute e in parte usate per confezionare paramenti sacri. Il suo solo rammarico dopo i rovesci finanziari era non poter fare del bene come un tempo. Pare abbia mantenuto per tutta la vita un povero cieco del paese e abbia fatto riscattare il cane di un suonatore ambulante dopo che la bestiola era stata catturata dalla guardia comunale. Lei stessa viveva con una vecchia gattina cieca, racconta un cittadino caratese che le ha dedicato un “blog”.
In parrocchia c’è anche copia del testamento con cui lascia la sua casa all’ospedale di Como, somme di denaro al Pio Istituto Teatrale della Scala, alla Congregazione di Carità di Carate, alla Fabbriceria e a servitori e amici, vari oggetti a domestici ed ex domestici e “un pane a testa da distribuirsi in Casa Comunale”.
Lascia anche una somma a Parroco e Fabbriceria per la cura della cappella di famiglia, che tuttora esiste accanto alla chiesa di Santa Marta ma è intestata ad altri (finora non è stato possibile verificare la sorte delle antiche sepolture: la lapide dedicata alla madre giace spezzata nel giardinetto); la parrocchia possiede anche un inventario degli oggetti contenuti in tale cappella e un promemoria indirizzato alla Curia da cui apprendiamo che vi erano sepolti anche la madre, le zie e un fedele servitore oltre a Maria/Sofia, scomparsa il 3 giugno 1916.
Una lapide nella sacrestia della parrocchiale di Carate la ricorda come “generosa fondatrice della prima messa festiva”.
g.fo.
si ringrazia:
Comune di Carate Urio, anagrafe e cimiteri
il parroco don Maurizio Uda e la sua mamma
il “blogger” signor Taroni